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Pistorius colpevole, ma restiamo figli suoi

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Nel giorno in cui per lui si aprono le porte del carcere e si è chiusa la vicenda giudiziaria, sulla quale lasciamo discutere altri, non è facile dirlo, ma possiamo correre il rischio di essere fraintesi: Oscar Pistorius, per quel che ha fatto e come lo ha fatto, è e rimane uno dei simboli dello sport paralimpico e della disabilità. Nasconderlo sarebbe ipocrita e ingiusto. Il paralimpismo non è nato con Pistorius e continuerà a crescere senza Oscar, ma i dieci anni in cui lui lo ha attraversato ne hanno cambiato la storia e le storie che ci girano intorno. Il 14 febbraio 2013 fa parte di una triste e drammatica vicenda, e il primo pensiero va alla povera Reeva, sulla quale la sentenza della giudice Masipa ha messo una pietra. Ma quelle corse, anche contro il vento di chi voleva fermarlo, hanno non solo cambiato lo sport, ma anche la percezione della disabilità.

Perché da quel giorno lì è stato tutto diverso. Settembre 2004, Stadio di Atene, il luogo simbolo di Olimpiade e Paralimpiade. I 200 metri per amputati di gamba sotto il ginocchio. Uno solo è amputato bilaterale, a entrambe le gambe. Viene dal Sudafrica, ha ancora 17 anni, è alla sua prima gara internazionale e da solo tre mesi ha cominciato a usare quelle strane protesi, fatte a lama ricurva, per correre. Prima, nelle gare con i suoi coetanei normodotati che stabilmente vinceva, utilizzava quelle di legno con le quali camminava. Fu oro nei 200 metri e bronzo nei 100. Davanti a veri e propri mostri sacri dello sport per disabili come gli statunitensi Marlon Shirley (allora primatista mondiale dei 100m con 11’’10) e Brian Frasure. Già da quel giorno andava in onda il futuro. Qualche ora dopo quella gara, poco prima della sera, chiacchiero davanti a del cibo italiano con Marlon Shirley, il grande sconfitto. Gli dico: “Però, Pistorius è proprio un fenomeno, no?” Lui risponde senza usare giri di parole: “Io ho una gamba sana, Oscar ha due protesi , non è giusto corra con me”.

Discorsi che poi abbiamo imparato a memoria, declinati in mille modi diversi, ma sempre uguali. Negli anni abbiamo visto lo sport paralimpico su: prime pagine di tutti i giornali del mondo, trasmissioni televisive in ore di massimo ascolto, pubblicità su giornali o tv, video musicali. Il viso che ci inondava era quello di Oscar Pistorius. Ha sdoganato atleti che la disabilità relegava a ruoli secondari, mostrando quanto erano bravi. Si è arrivati a dire: la disabilità è un vantaggio. Un ribaltamento di ruoli che era eccessivo e anche stupido, ma mostrava come un certo mondo non fosse pronto alla rivoluzione, anche se questa era già realtà.

Ha fatto capire che perdere una parte del corpo in certe situazioni era una cosa positiva. La sua ultima Paralimpiade è stata e sarà Londra: il Comitato Paralimpico Internazionale ha chiarito che non potrà gareggiare a Rio, essendo ancora in atto la condanna a 5 anni di reclusione. Potrebbe rientrare a Tokyo 2020, in fondo avrà 33 anni. Ma non sarà più competitivo: la crescita del movimento e di nuovi talenti è avvenuta per lui. Finale dei 100 m T44 a Londra, dove lui partecipava e perse. Quelli che lo hanno battuto, quelli vicino a lui, alla domanda perché avevano cominciato a gareggiare rispondevano dando un solo  motivo: “Ho visto correre Oscar”.

C’è un passato che non è da nascondere, ma da raccontare, e uno del quale vergognarsi, ma ugualmente da raccontare. C’è anche una storia grande e universale, e una piccola e personale. Lo sport paralimpico sappia guardare con orgoglio a quell’Oscar Pistorius universale perché, in fondo, anche se oggi è il giorno più difficile per dirlo, siamo tutti figli suoi.


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